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Vite sul confine

Intervista a Gabriele Gatti, autore di articoli e videoreportage a fianco del fotografo Nicola Fornaciari. Nel 2017 è uscito il docu-film indipendente “La Foto di Omid” sulla condizione dei campi profughi al confine serbo-ungherese.

Cosa ti ha spinto ad andare sul confine ungherese a fare questo reportage?

Gabriele Gatti: Il mio lavoro. Il reportage realizzato tra 2016 e 2017 sul confine serbo-ungherese è stato il mio primo assignment come reporter sul campo insieme al fotogiornalista Nicola Fornaciari con cui tutt’ora lavoro.

Come si presenta il famoso “muro di Orban”?

Gabriele Gatti: La barriera costruita tra Serbia e Ungheria che in gergo giornalistico chiamiamo Muro di Orbàn è un’invalicabile struttura di filo spinato e rete metallica pattugliata 24 ore su 24 da polizia di frontiera e militari ungheresi. Si aggiungono ad intervalli regolari lungo tutta la barriera sensori di movimento, telecamere e riflettori.

In che modo i migranti cercano di oltrepassarlo o di aggirarlo?

Gabriele Gatti: La prassi diffusa soprattutto nel 2016 e nel 2017 per chi voleva superare il confine in modo illegale (chi per necessità, chi per eludere i controlli) era quella di creare delle aperture o dei passaggi in alcuni punti ciechi della barriera. Questa prassi era e rimane molto pericolosa poiché sia nel momento del passaggio, sia all’interno dell’Ungheria possono sopraggiungere le forze dell’ordine la cui prassi è quella di scoraggiare ulteriori tentativi di passaggio anche con l’uso della forza.

Prima di partire, cosa ti aspettavi di vedere?

Gabriele Gatti: Prima di partire avevamo fatto un piano di lavoro, come solitamente avviene prima di ogni reportage, e ce lo siamo visti sfumare tra le mani. Quando si lavora in zone dove gli assetti cambiano molto velocemente e ci sono poche informazioni riguardanti i luoghi dove dovrai lavorare, le aspettative e i piani cambiano inevitabilmente. Per ogni lavoro comunque è sempre bene documentarsi con molta attenzione ma non partire mai con la verità in tasca.

Quali sono le condizioni dei migranti? Quali i motivi che li hanno spinti ad intraprendere questo viaggio?

Gabriele Gatti: Le condizioni delle persone che percorrono le rotte balcaniche peggiorano gradualmente più ci si avvicina ai confini con l’Unione Europea.

I migranti, arrivati a quel punto, potrebbero essere in viaggio anche da diversi anni. Le ragioni per intraprendere la traversata sono tante quante sono le persone che percorrono le rotte balcaniche. Ognuno ha i propri fantasmi e le proprie personali fatiche che lo spingono a continuare o lo costringono a fermarsi. Un afghano può essere fermo da mesi a Belgrado perché, finiti i soldi, l’unico modo che ha per guadagnarne altri è quello di diventare un trafficante e condurre altri migranti come lui attraverso i confini.

Ci sono casi di famiglie iraniane truffate dalla falsa promessa di una nuova vita in Unione europea che sono bloccate da mesi in Bosnia. Marocchini con cittadinanza italiana che, grazie alla promessa di denaro facile, ora fanno i passeur verso l’Italia.

In mezzo a queste storie, che poco sono sottolineate dalla narrazione tradizionale, ci sono anche contadini pakistani, nati dalla parte sbagliata del loro paese, la cui casa è stata centrata in pieno da una bomba proveniente dall’Afghanistan. Egiziani a cui è stata prospettata la scelta tra una morte certa e l’esilio. Iracheni che, dopo aver perso tutto in patria sono rimasti anni in un campo profughi turco, poi in un campo profughi greco fino a quando, stanchi di vivere in condizioni inumane, hanno scelto di fuggire di nuovo.

L’Unione Europea dovrebbe intervenire? Se sì, in che modo?

Gabriele Gatti: Lavorando sul campo da qualche anno ho potuto constatare che “Unione europea” è un nome che riempie le bocche di chi non ne conosce il vero valore. L’Unione europea puoi trovarla negli occhi pieni di speranza di persone che veramente vedono nella Germania o nell’Italia la terra promessa, sui giubbetti di volontari della domenica o neoassunti all’UNHCR o all’IOM che non sanno nemmeno la differenza tra Federazione di Bosnia ed Erzegovina e Repubblica Srpska, sulle bocche degli stolti che chiedono di aprire i confini ma che sanno benissimo che rimarranno sigillati e sui block notes di giornalisti che spesso confondono la professione con l’attivismo.

Quello che mi auguro è che cambi in fretta la retorica dell’’apriamo i confini” che oggi è inattuale quanto pericolosa. Se infatti uno stato avesse la facoltà, a suo piacimento, di aprire un confine per una giornata e chiuderlo per mesi, permettendo l’accesso solo a chi è suo interesse far entrare (o uscire), significherebbe limitare non solo la possibilità di movimento di quelli che noi chiamiamo migranti, ma di noi tutti.

Auspico anche che cambi anche la pericolosissima abitudine dell’assistenzialismo della domenica e che vengano invece valorizzate le associazioni e le ONG che operano in maniera precisa e costante, con piani a lungo termine e con una preparazione degli operativi anche in materia di sicurezza e crisis management (che, fatti accaduti in tempi non sospetti, confermano come indispensabile).

Per concludere aggiungo che l’Unione europea potrebbe limitarsi a rispettare gli accordi internazionali, sanzionare duramente chi trasgredisce ed elaborare un reale piano a lungo termine per i cambiamenti che stanno interessando il nostro mondo in questi anni.

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